"Danzare è amore" intervista a Valeria Galluccio, danzatrice della Compagnie Marie Chouinard
Se Marie Chouinard è la femme sauvage du Québéc, i suoi interpreti sono delle fonti inesauribili di energia: di certo lo è Valeria Galluccio, danzatrice italiana, da cinque anni nella compagnia di Marie Chouinard, che con entusiasmo ci ha parlato della creazione ispirata a Bosch, Il giardino delle delizie, e del suo rapporto con la danza.
Come hai iniziato il tuo percorso nella danza contemporanea?
Ho studiato danza classica dall’età di 5 anni a Napoli, e ho proseguito fino ai 19 anni. Poi ho fatto un’audizione come solista per un progetto supervisionato da Ismael Ivo, allora direttore della Biennale danza, per una coreografia di Eleonora Folegnani, e sono stata selezionata. Dopo il progetto ho proseguito con l’allora neonato Choreographic Collision, un percorso di formazione per una ventina di danzatori che accoglieva ogni due settimane - per sei mesi - un coreografo diverso. Lì ho incontrato la danza contemporanea e ho pensato “voglio fare questo nella mia vita”: mi dava l’opportunità di esprimermi, mi dava una prospettiva diversa che mi apriva al mondo, anche interiore, un mondo che continua ad essere fonte di una spinta artistica. L’anno successivo ho ripetuto Arsenale danza e poi ho seguito dei progetti con altri due artisti italiani – ora al Teatro di Monaco - in giro per l’Europa. Nel 2011 ho fatto l’audizione per la compagnia Marie Chouinard a Vienna, ed è stato un colpo di fulmine, un incontro che doveva arrivare nella mia vita: dieci giorni dopo ero già a Montréal!
Un incontro deciso dal destino, quindi?
Ammetto che non conoscevo benissimo il lavoro di Marie prima dell’audizione, eppure durante la selezione, mentre provavamo il repertorio, ho sentito che la danza che lei crea mi apparteneva già…da secoli! La danza che crea, l’idea di danza che Marie ha, era, mi resi conto, quella che il mio corpo già sapeva. E ancora dopo cinque anni mi dico, nonostante il ritmo intenso della compagnia e della tournée, che sono felice artisticamente: l’esperienza che faccio in scena e la libertà che ho di espressione e interpretazione, mi rendono davvero felice artisticamente.
Libertà, felicità, sono parole importanti non solo a livello artistico…
Il mio rapporto con la danza è viscerale, spirituale, ancestrale: al di là della carriera, e di un percorso intellettuale, il mio rapporto con la danza coincide passo passo con il mio percorso personale. Quando riesco ad apprendere qualcosa in più non solo come artista, ma anche come essere umano, allora so che è ancora la strada giusta; se i due mondi non combaciano, allora devo farmi qualche domanda…Questa connessione con l’emozione è importante perché mi connette con il pubblico, e questo incontro con il pubblico per me è un privilegio, perché avviene tramite una comunicazione non verbale, non riduttiva. Danzare è amore.
Com’è il lavoro in sala con Marie Chouinard?
Lei lavora con assoluta libertà. Ha un’idea di base, ma non ci impone mai un movimento: crea in base a ciò che esce da noi danzatori improvvisando, e sceglie qualcosa che le interessa e la emoziona. Questo mi piace in lei: so che Marie è un’artista vera, profondamente connessa a quello che sente umanamente nel momento della creazione. Per me è importante sapere se le scelte di un coreografo sono legate a un percorso intellettuale o emotivo, ma ormai so che lei sceglie sempre qualcosa che la fa vibrare a livello emotivo. Perciò sarebbe facile improvvisare in base a ciò che a lei piace a livello artistico, ma non sarebbe giusto, perché ogni volta che lei mi sceglie per una parte da interpretare, è sempre legata a una situazione che sto vivendo a livello emotivo o personale. Specialmente in quest’ultima creazione su Bosch. E questo mi nutre: durante i mesi di performance riesco a trovare un’intuizione, una soluzione, a domande che mi pongo anche nella vita quotidiana.
Riflessioni filosofiche che si risolvono in una coreografia. Intelletto, emozioni e corpo non sono quindi indipendenti, ma un tutt’uno della persona…
Tutto è connesso. Marie fa un lavoro che parte da un sentire, una verità che tu danzatore senti, ed è una forma di libertà per l’interprete che è contemporanea, ma soprattutto umana: accetta la vita, e non cerca la finzione sul palcoscenico. Mai mi viene chiesto di nascondere la mia emozione di quel momento. È catartico il lavoro di Marie, ed è un tratto fondamentale del suo lavoro, perché la danza per me è spiritualità profonda ed è scoperta di dove sono ora, del perché sono qui, e di cosa devo imparare da questa vita, da questo momento. È filosofico, ma nel lavoro col corpo diventa concreto.
Com’è stato il lavoro a partire dal dipinto di Bosch?
L’approccio al dipinto di Bosch è stato molto semplice, del resto Marie è una persona semplice e al tempo stesso intelligente, estremamente sensibile; in questo caso poi si è messa a servizio del dipinto, ha avuto rispetto verso l’artista Bosch ed ha approcciato questo lavoro con molta umiltà.
Siamo partiti scegliendo un’immagine, e da quella abbiamo improvvisato: personalmente mi hanno ispirato molto delle immagini della parte centrale del trittico, che mi hanno toccato a livello emotivo dopo averle sperimentate nel movimento, e attraverso queste ho potuto esprimere l’emozione che stavo vivendo. Marie interviene poi a lavorare questo materiale grezzo su un livello estetico, ma come interpreti bisogna sempre ricordare la prima emozione, quella istintiva, da cui è nato quel movimento: perché questo è importante. Altra cosa importante, anche per lo sviluppo successivo della coreografia, è che Marie non dà mai il nome a un personaggio, non ti inserisce in uno schema: anche quando nomina le parti di una coreografia, per questioni di comodità, lo fa in base ai movimenti, non attraverso definizioni, per non costringerlo a una parte precisa!
Anche il dipinto originale in fondo sembra l’istantanea di una coreografia, una coreografia a tratti spaventosa…
Lavorando a livello coreografico su questo dipinto, puoi capire come in realtà le immagini non siano terribili: prima di tutto ti colpisce l’artista Bosch, così intelligente, all’avanguardia già nel Cinquecento, politicamente impegnato. Siamo stati anche al Prado, e dal vivo ti rendi conto ancora di più che lo stesso inferno di Bosch non è terribile ma ironico; mentre il Paradiso, l’altro pannello, sembra molto semplice: eppure vedendo l’analisi ai raggi infrarossi ti rendi conto delle complesse modifiche dell’artista, non solo in cambi di personaggi, ma anche in cambi di posizione dei personaggi! E la sfida non è solo nelle posizioni che assumono: anatomicamente nei dipinti di Bosch a volte mancano delle parti fondamentali di corpo, come il collo, ad esempio. Sembra un grave problema riprodurre il movimento di un’immagine cui manchi qualcosa, eppure questi limiti hanno alimentato la nostra creatività! Se un braccio nel dipinto lo vedo trasparente, come posso io danzatore rendere la trasparenza in un movimento? Cosa potrebbe vivere quest’immagine in quel momento?
La sfida non è solo a livello fisico, accennavi a un assolo di voce…
C’è una nuova sfida per me in questa creazione: un assolo vocale, che è capitato in creazione. Apre il secondo atto, ed è davvero una performance. È stata una bomba per me: non solo richiede tanta energia, ma è anche una parte di me che viene fuori e di cui non ho paura, e che Marie ha colto, lavorandola in una coreografia vocale che in realtà è un duetto con il tecnico del suono. Un duetto tra me sul palcoscenico e il tecnico posto dietro al pubblico, è una sfida complicata, ma molto divertente! Dopo questo lavoro con la voce, così viscerale, mi sono resa conto di aver perso molti dei filtri che mi ero imposta nella comunicazione, e mi sono sentita più completa come artista e come persona. E il bello è che non so come questo assolo evolverà nelle prossime rappresentazioni…
Il filtro viene così a mancare anche verso il pubblico, che pur stando seduto si sente vicino all’umanità in scena…
Sì, è un lavoro che ti porta vicino al pubblico emotivamente: gli interpreti sono davvero trasparenti, vulnerabili, non c’è una barriera tra i danzatori e il pubblico, c’è solo umanità. Ci tiene molto Marie a questo togliere strati di troppo e ad avvicinarsi al pubblico.
Il lavoro con Marie ti riavvicina anche all’Italia, vista la nuova nomina a direttrice di Biennale Danza per la coreografa…
Vedi com’è la vita? Mi riporta di nuovo a Venezia! Una città che per me è stata artisticamente importantissima, perché lì mi sono formata, lì ho incontrato la danza contemporanea, lì ho deciso che la mia vita sarebbe stata la danza contemporanea prima ancora di avere un lavoro, lì mi sono sentita completa e sono poi partita verso il Canada. Sono molto fiduciosa del lavoro che farà Marie, lei ha una visione della vita più leggera, ironica. E poi è geniale a livello artistico, ma anche a livello gestionale-economico: della nostra compagnia lei è direttrice artistica, ma anche direttrice generale, ed ha una forte coscienza del valore delle cose - materiali e immateriali - che compongono un progetto artistico. E soprattutto, se ha un’idea, la porta a termine fino alla fine, perché la sua è una natura istintiva e creativa: la sua idea nasce e comincia subito a dare frutti. Questo continuo generare è tipicamente femminile, secondo me; Marie dopotutto ama la femminilità, ed è consapevole del potere femminile, fondamentale nelle sue creazioni. Non troverai mai un personaggio femminile stereotipato nelle sue creazioni: non c’è un’idea fissa della donna, ma è certamente una presenza importante, che lascia un messaggio importante sia nella fragilità che nella forza, sia nell’orribile che nel meraviglioso, è una figura a 360 gradi.
È l’umanità al centro delle sue creazioni prima di tutto, in ogni sua sfumatura.